Notte prima del lockdown…

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Riaccendo il telefono dopo una pausa di un paio d’ore per potermi concentrare sul mio smart working-studying. Ci sono 262 messaggi. Dalle chat scolastiche, soprattutto. C’è la chat dell'”Asilo del mare e del bosco” frequentato dal bimbo più piccolo, dove si accenna all’idea di protestare contro il Dpcm che ha deciso il lockdown per la Calabria. E che mi sembra quantomeno eccessivo, se non punitivo, per una regione come la Calabria, con un Rt (indice di contagio) così incomparabilmente basso rispetto al Piemonte e alla Lombardia, regioni sorelle di “chiusura”, e rispetto praticamente a tutte le altre regioni italiane. I posti letto in terapia intensiva, però, già. Quelli che sono stati tagliati o mai creati. E che ora mancano all’appello. Dopo anni e anni di commissariamento. Dunque la colpa, e il castigo, sempre nostri sono.

La protesta, dicevo. Pacifica. Il dissenso democratico. La raccolta firme. Unita a cuori e invii di pensieri positivi e di luce, tipici di altre mamme un po’ fricchettone come me. Ma io e mio marito ci siamo lasciati andare, in anni di ottimismo, a fare quattro figli. Dunque le chat sono tante. C’è quella della primaria statale. Alcune mamme invocano la sospensione della mensa e del tempo pieno in modo da evitare ai bambini la mascherina obbligatoria. Tremo. Senza mensa e tempo pieno si dimezza anche a me lo smart-eccetera. C’è chi dice che è meglio la didattica integrata digitale (did), un’evoluzione della dad (didattica a distanza) di aprile, quando centinaia di maestre italiane, colte alla sprovvista, inviavano altrettante centinaia di whatsapp quotidiani con i compiti, o improvvisavano riunioni nell’aula virtuale del registro elettronico. Ora è tutto organizzato. Riunioni in Google meet rispettando l’orario che facevano in presenza. Con tanto di merenda insieme e cazzeggio tra i bambini all’intervallo. Non male. Ma in ogni caso sempre sulle famiglie ricade, soprattutto quelle con genitori entrambi lavoratori, o in disagio economico sociale o in digital divide. Tremo di nuovo. Spero che invece i bambini possano andare ancora a scuola e socializzare con i loro compagni e le loro maestre almeno in quelle ore, adesso che, per il resto, resteranno chiusi in casa per un mese.

Passo alle chat della scuola paritaria frequentata dalle figlie. Anche qui era stata approntata all’istante la Google suite con organizzazione svizzera, quando lunedì scorso il sindaco di Soverato, Ernesto Alecci, aveva deciso di chiudere le scuole per i sospetti casi Covid. E anche qui si parla di mascherine obbligatorie per tutte le ore. Una mamma pedagogista-per-amica, Viviana Vitale, invia il chiarimento del ministero dell’istruzione: non occorre indossare la mascherina alla primaria, se seduti al banco e distanziati. Tutti tiriamo un sospiro di sollievo, sperando che i chiarimenti siano già arrivati a dirigenti e docenti. E tra un’autocertificazione da scaricare al volo e stampare, la corsa a capire come compilare i vari moduli per varcare i confini della città (Soverato) o del quartiere, domani con i quattro bimbi, mi accorgo che è già sera.

“Mamme ma le misure scattando da questa mezzanotte o da domani a mezzanotte?”. Oddio. Ormai non sono più lucida. Dubbi si accavallano. Avremo la pizza da asporto. E volendo anche il parrucchiere. La libreria Non ci resta che leggere già organizzata con la consegna libri a domicilio. La corsetta sotto casa. E un intero weekend per assorbire la botta. Anche se era nell’aria da giorni, quando ieri Conte lo ha reso esplicito con la solita apparizione tv – io marito e figli in ordine sparso tra poltrone e divano, in silenzio da suspance delle serie Netflix più avvincenti – sono stata presa da un senso di angoscia e rabbia mai provate finora.

E’ tempo di nuove consapevolezze. Di rispolverare grandi classici, da Tucidide a Boccaccio, passando per Lucrezio. Quelle pestilenze micidiali. E molti stessi problemi umani di adesso. Ma anche di capire quali sono le vie possibili per riprendere in mano la sanità regionale. Interrogativi e pensieri si smorzano, interrotti dai bip indiavolati del telefono. Ottantotto notifiche. Lo spengo. Qualcosa mi dice che ce la faremo a uscire indenni anche questa volta, e lo dobbiamo a loro. Ai nostri figli, alunni, ragazzi. A quelli di loro, mi auguro tanti, che sceglieranno di restare in Calabria. E sapranno compiere le scelte, rivendicare i diritti, dire i sì e i no, che noi non abbiamo potuto. Non abbiamo saputo.

Teresa Pittelli

 

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