“Lei ha buona volontà ma è inidonea”. E le tolgono il figlio di un anno

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A Miriam, una mamma di Cosenza con una storia di instabilità sociale ed economica, viene tolto il suo bimbo tre giorni prima che spegnesse la sua prima candelina. Ora non lo vede da un anno e il tribunale ha negato anche alla zia di prendersi cura del nipotino.

Un abisso di dolore. E una macchina giudiziaria e burocratica implacabili in una materia che forse richiederebbe più riflessione. Questo è quel che si pensa leggendo gli atti giudiziari di questa e tante altre storie simili. E ascoltandone il racconto da Monia, zia quarantenne di un bimbo che da un anno non vede la sua mamma né nessuno della sua famiglia. E che dopo aver vissuto rinchiuso dalla nascita in istituti, che ora si chiamano con il più rassicurante nome di case-famiglia, è in affido a una coppia di estranei. Comincia nel febbraio 2012 la storia di Samuel (i nomi sono di fantasia), quando nasce all’ospedale Gemelli di Roma. O forse inizia a disegnarsi ineluttabilmente qualche anno prima. Quando la sua mamma Miriam arriva a Roma da un paesino a pochi chilometri da Cosenza, in cerca di maggior fortuna rispetto a una vita un po’ segnata dalla morte prematura del papà, da una situazione finanziaria poco stabile. I tempi sono duri e un impiego fisso non salta fuori. In compenso Miriam trova un uomo con il quale sperare in un rapporto di coppia. Un altro sogno destinato a naufragare, quando Miriam poco dopo resta incinta e lui si allontana. Sembra la fine e invece è un nuovo inizio.

Miriam accoglie quella nuova vita come una possibilità di riscattare la sua, di dare amore e famiglia alla propria creatura, compiendo un salto di qualità anche lei. E’ con questa speranza che si rivolge ai servizi sociali del Comune in cerca di aiuto e viene accolta in un istituto di suore dove trascorre in tranquillità i mesi della gravidanza. Ma il giorno che partorisce Samuel cominciano i problemi. Miriam viene spostata insieme al piccolo in una casa-famiglia e poi in un’altra a Roma nord. Giorni delicati, nei quali la neomamma dovrebbe ricevere il massimo delle cure e della tranquillità. E che invece Miriam vive male, litigando con operatrici dalle quali si sente incompresa, coinquiline che accusa di rubarle o spostarle le sue cose quando è via. I mesi passano, le relazioni negative si accumulano. Incentrate su episodi di incomprensione con educatori e ospiti. E sul fatto che Miriam si è isolata in camera. Nessuno nega che il bimbo stia bene, ma le viene contestato di tenerlo troppo tempo in culla nella stessa posizione. Il 19 febbraio 2013, quando a Samuel mancano tre giorni per spegnere la sua prima candelina, viene prelevato dalle braccia della mamma e collocato da solo in un’altra struttura. Sotto shock, Miriam si ritrova a poterlo vedere solo un’ora a settimana. Samuel ha avuto la bronchiolite quando aveva un mese. Miriam si preoccupa al pensiero che possa riammalarsi, che privato all’improvviso della mamma possa risentirne troppo. Durante un incontro protetto si agita perché lo ritiene provato e raffreddato. Grida, impreca, va a denunciare l’istituto. E gli incontri vengono interrotti. Miriam intanto è stata sottoposta a vari accertamenti psico-pedagogici. Le perizie del Dsm escludono quadri psicopatologici, ma il Centro aiuto al bambino maltrattato alla fine della valutazione considera “insufficienti” le sue competenze genitoriali, nonostante a più riprese le vengano riconosciute buona volontà e collaborazione.

A fine 2013 il tribunale dei minori apre il procedimento per verificare lo stato di abbandono di Samuel, a gennaio 2014 ne decreta l’adottabilità. Decisione confermata lo scorso luglio in appello, nonostante la costituzione in giudizio di zia Monia, che vive e lavora a Barcellona, è sposata ma non ha figli, è disponibile a prendere il nipotino con sé, ma viene giudicata poco affidabile per non aver intrattenuto grandi rapporti col bimbo in precedenza. “Io ho sempre aiutato mia sorella da qui, poi via via che ho capito la gravità della situazione mi sono riavvicinata fisicamente, sono venuta a Roma, ho cercato di far capire il mio percorso teso a riavere Samuel, ma non mi sento ascoltata”, si difende Monia. Insomma può un vissuto difficile e la fragilità socio-economica privare una madre di un figlio e un figlio della mamma? E del resto della famiglia disposta a prendersene cura? Una domanda che in Italia forse è bene che, in attesa della Cassazione sul caso di Samuel, istituzioni, opinione pubblica e politica dovrebbero cominciare a porsi.